Il Convento
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Completamente riedificato nel 1968-1969
il convento si presenta semplice come nello stile francescano.
Si struttura in tre livelli di cui
un seminterrato con vari locali adibiti a depositi;
un piano terra con vari locali con ambienti comuni:
sale d'incontro, sala lettura, refettorio, cucina e due chiostri;
e infine
un piano superiore con le camere per i frati e gli ospiti e la biblioteca.


Ambienti comuni
Salottino1

Salottino per incontri
Salottino2

Salottini per colloqui
Sala Lettura

Sala Lettura
Refettorio

Refettorio
veduta dall'alto del convento

Veduta dall'alto del convento
Chiostro interno

Chiostro interno
Chiostro esterno

Chiostro esterno
Orto

Orto


Piano superiore
Corridoio

Corridoio
Camera ospiti

Camera ospiti
Biblioteca

Biblioteca

Studio Provinciale

Studio Provinciale
Salottino piano superiore

Salottino


Piazza S. Francesco*

Le tradizioni non si improvvisano. Stillato prezioso dei secoli, nazioni e città se ne imbevono profondamente, ne traggono alimento vitale e tempera di costume. Perfino i luoghi e le cose, a poco a poco, ne sembrano filtrati come per misteriosa partecipazione: sì che riuscirebbe impossibile separare la pietra dal ricordo, come il corpo dall'anima. Così, nella vecchia Ceneda, l'umile chiesa e il muraglione dei Frati incarnano la tradizione francescana nella stessa guisa che la riflette il tono gaio e schietto del popolo, o la sua fede semplice, o la serena frugalità.
Vittorio Veneto ama i suoi Frati, e a nessun patto se ne vorrebbe privare. Li ama qundo li vede, nella disadorna perfezione del saio; li ama quando non li vede ma sa che ci sono, nella quiete delle celle o del chiostro, nell'armonia mistica del coro, nei vialetti ariosi del brolo. Li circonda di un rispetto che non è d'ossequio ma di gratitudine; affetto inesprimibile di una gente che in ogni tempo, triste o difficile o periglioso o lieto, ha sentito vicino al suo il cuore dei figli di S. Francesco, che hanno vissuto la sua stessa vita, che hanno pregato per i suoi malati e vegliato e benedetto i suoi morti. Nessuno ha letto la storia; perché ogni bimbo come ogni vecchio conoscono da sempre i Frati, a Vittorio. Nei primi lontani ricordi sono i racconti della nonna e il santino del Padre; nei più maturi e recenti la testimonianza dell'umiltà, della carità, della cortesia. Non m'importa di sapere di che roccia è fatto il mio S. Paolo. Lo amo da prima di nascere; da molto prima, da quando un francescano vi salì, seguito da una folla immensa, portando una Croce e cantando lo "Stabat Mater".

C'è una virtù che attira e che conquista più di ogni altra, forse, è segno fra noi della presenza Divina: la misericordia. Pietà del dolore e del peccato, come della povertà e del digiuno. Noi non possiamo avere se non qualche barlume dell'Amore che splende; ma dell'amore che dona e perdona nel quotidiano olocausto della vita, possediamo l'esemplare vivente nel Francescanesimo. E i frati lo portarono fedelmente dai nostri avi; e lo hanno reso fra noi familiare e usuale, come una promessa festiva, come un sorriso giornaliero.
Vengono i peccatori e i poveri da tutta la città e dai paesi vicini. Vengono di sera tarda, o all'alba, o nel meriggio assolato. Fanno ressa talvolta, nel Chiostro esterno, o siedono sui gradini della scalinata consunta. E chi chiede una scodella di zuppa che lo sfami, chi una parola solenne che gli ridia la pace. Soprattutto nelle grandi ricorrenze del Natale e della Pasqua, ancor più che nelle festività consuete, batte il dolore alla porta dei Frati. "Quod superest date pauperibus". La porta si apre, si spalanca, resta così come un invito. E la mano instancabile della misericordia si alza ad assolvere, si tende ad offrire.
La Città che vive anche dei suoi dolori, affolla la Chiesa di S. Francesco, la chiesa "ai Frati". Ascolta il canto soavissimo che sgorga d'intorno al Tabernacolo, prega in fervore, esce composta sussurrando. Non ha visto la fatica degli apostoli, ma scorge il volto contento e schivo dei beneficati. Chi potrebbe dire l'intimo struggimento che prova il cuore, quando suonano le campanelle dei Frati? Povere e piccole, ma garrule e fedeli, esprimono davvero tutta la letizia del messaggio francescano. Anche quando segnano le ore della mestizia umana, il loro suono non lascia malinconia, ma istilla persuasione di conforto. All'alba si confondono con il cinguettio degli uccelli; a mezzogiorno si mescolano e s'immedesimano coi rumori della vita che esulta. A sera scandiscono insistenti, alto nell'aria, la soave melodia del ritorno e del riposo.
Dovunque la Città le ode, senza ascoltarle, come non si ascoltano i battiti del cuore che ci fa vivere, le parole della ninna nanna che ci acquieta. Non potremmo neppur pensare una festa senza le campanelle dei Frati. Di festa suonano prestissimo, per prime, suonano in modo diverso; le sentiamo nel sonno, dolcissime, e non ci svegliano, non ci danno fastidio; ci addormentiamo più fondo, anzi, come il bimbo in cuna quando sente indugiare sul capo la carezza materna.
Non direi che invitano alla preghiera, ma che sono esse stesse preghiera, e canto liturgico, e canto di gioia e pianto che non turba. Garrule e fedeli. Esalano lo spirito francescano come un profumo che si effonde dal campaniletto breve sulla Città e sul mondo; aroma di incenso, odore di fieni.
E diremmo che le campanelle dei Frati godono di suonare. Si sente che godono: dell'aria pura in cui si spandono, degli echi che scendono dai monti, della Città bella che dorme o che veglia, e sempre le attende a gloria.

Francesco Franceschini

 *(tratto da: "Nel Centenario del Ritorno dei Frati Minori a Vittorio Veneto", Scuola tipografica Istituto San Gaetano Vicenza, Vittorio Veneto, 5 febbraio 1956, pag. 41)